Sul Colle

 Piero della Francesca               
               
( PRIMA  PARTE )

“Ancora uno scritto su Piero della Francesca”, dirà qualcuno un po’ con l’autosufficienza di chi conosce o chi suppone di conoscere, come ogni intellettuale o accademico che si rispetti e a cui si deve il giusto tributo e credito, come ad ogni onesto e modesto o abituale artigiano, od operaio - esegeta e storico delle lettere oppur delle arti. Ma come si sa, o si dovrebbe sapere, ogni artigiano od ogni pensatore o specialista, è certo che le sue verità siano “le verità” (anche don Milani dice che la verità non ha parte).

Sia Piero che Dante non hanno avuto dei destini tanto felici dall’origine ai nostri tempi; Dante fu scacciato, o fuggì da Firenze, pena la morte e Piero, dopo la sua morte, cadde nel limbo della dimenticanza per quattrocento anni fino alla riscoperta del 1927 di Roberto Longhi. Il più delle volte noi facciamo la retorica tessendo le lodi dell’arte di Dante o di Piero o di Michelangelo, ma in fondo sia noi che i turisti e altri conosciamo ben poco di Dante, Piero e Michelangelo anche (e può essere per me basilare) perché i più dei neofiti dell’arte non hanno la benché minima dimestichezza con la religione cristiana storica, e cioè anche con tutta la simbologia e le allegorie che hanno attraversato i secoli o i duemila anni della storia della cristianità orientale e occidentale. E che certo non è solo l’area geografica del bacino mediterraneo come semplicemente si intende, ma comprende una parte del Medio-Oriente, la Russia intera, il che non è poco perché vuol dire una metà dell’emisfero terr’acqueo. Gianfranco Contini (grande filologo e storico della letteratura del Novecento e il maggiore esegeta di Dante) con una metafora diceva che: “E’ un fatto che noi ci sentiamo più solidali col temperamento linguistico di Dante; ma è altrettanto un fatto che la sostanza della nostra tradizione è più prossima alla cultura petrarchesca […] Se la lingua di Petrarca è la nostra ciò accade perché egli si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni, sottratti alla mutabilità della storia”. Come dire che ciò che contraddistingue e sostanzia la nostra lingua è una specie di romanticismo o espressionismo o al limite manierismo. A un equilibrio della forma o linguistico (come indica sempre il Contini) non si giunge dall’interno della stessa ma se mai dall’esterno. Il rapporto con il mondo e con tutto il creato, come dice anche Francesco d’Assisi, comporta questo itinerario o comprensione di tutte le creature alle quali ci si avvicina come ad ogni cosa dall’esterno per conoscere o conoscerle e non dal di dentro (per esempio un bambino piccolo impara il mondo o il suo linguaggio dall’ambiente in cui cresce e cioè dall’esterno). Come dice sempre Francesco “ogni creatura è degna di onore e lode”. Ogni creatura ci fa schiudere ad un mondo nuovo e ogni mondo nuovo e creatura necessitano e hanno parole nuove per chiamarci o manifestarsi come Dio, perché il linguaggio di Dio non ha confini. L’atteggiamento romantico di noi moderni, quello del godere le cose che il mondo ci propina e ci rende veloci consumatori di tutto, anche dell’amore reciproco, questo atteggiamento è lo stesso di Petrarca che si circonda nel circolo chiuso degli oggetti da consumare o da adorare come degli dei, come facevano i pagani. Come dire che non avendo un Dio grandissimo ed invisibile da cercare o pregare o dei grandi ideali, ci chiudiamo sempre più nel nostro piccolo mondo fino magari a soffocare, non solo noi stessi ma anche gli altri. Ma ciò che si è buttato dalla porta, o ciò che non si è buttato, piano piano ci fa esplodere la casa, oppure rientra tutto dalla finestra, pure i rifiuti (e questa è storia triste dei nostri giorni). Questa è la nostra condizione, ma non la condizione di Dante e Piero della Francesca, o Michelangelo (nell’ordine) e per questo e perciò si torna a parlare di questi uomini geniali che invece hanno cercato perlomeno con la loro opera e il loro insegnamento, di cambiare il mondo o di schiuderlo a un’alba nuova dove, in una nuova prospettiva, si possa intravedere Dio e una nuova umanità che non viva solo di oggetti da usare o di persone da usare come merci, o schiavi, ma semmai solo come mistero del creato di Dio. (continua)

                                                        (Sul Colle n. 13)

                                                        Leonello Taschini